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Risonanza, biforcazioni e fluttuazioni

  Sul dilemma tra necessità e possibilità, ritengo sia determinante l'intervento di Ilya Prigogine, laddove, nella processualità...

26 marzo 2008

Verità e credibilità

I politici formulano i loro Progetti commissionando sondaggi. Ma la gente pensa davvero come dicono i sondaggi?

La potenzialità delle tecnologie moderne oggi possono diventare il mezzo con cui le persone, scambiandosi opportunità per ottenere vantaggi comuni, creano aree di sviluppo e di consolidamento nell’ambito di progetti esistenziali percorribili in un clima sociale consapevole.
A tal fine i progetti devono fondarsi sui modelli esistenti: analizzarli, stabilirne i punti di debolezza e portarli a termine con programmi di emancipazione civica in cui sono individuate aree di sviluppo e aree di consolidamento per raggiungere finalità compatibili con lo sfruttamento delle risorse disponibili. Questo modello, oggi, è quello al quale si conformano socialisti e liberali ognuno dei quali dovrebbe alternarsi nella conduzione politica muovendo le loro azioni ora stimolando Residui di I Classe ricadenti nella istinto delle combinazioni e ora quelli di II Classe ricadenti nella persistenza degli aggregati. Ma qual è il modello migliore?
A mio parere, non è possibile la coesistenza di due modelli contrapposti. Un modello sociale non può che essere unico e riferirsi a un'Unica Idea.
·  Il Residuo operante con lo sfruttamento delle risorse con la speranza di realizzare la vivenza che si considera indispensabile per il benessere sociale e per la felicità che si presume di tutti, oppure
·  il Residuo operante con lo sfruttamento delle risorse con la speranza di realizzare, con le risorse disponibili, una vivenza che si considera indispensabile per il benessere di ognuno nella società e per la felicità che ognuno pensa di realizzare per se stesso?
Ancora una volta Vincenzo Fano mi viene in aiuto, ed ora, in particolare, per completare il secondo volume del libro e per segnare l’inizio del terzo.
 Il 12 gennaio 2009 pubblicava sul suo blog il post intitolato Kant, la morale e John Ralws.
Lo ricopio:
All’inizio del § 7 del I libro della Prima parte della Critica della ragion pratica (A 54), Kant enuncia quella che chiama la legge fondamentale della ragion pura pratica, “Opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere come principio di una legislazione universale”. In pratica l’imperativo categorico non è basato su una serie di obbligazioni determinate, come, ad esempio, i comandamenti, bensì su un metodo per determinare di caso in caso che cosa dobbiamo fare. Non è detto, ad esempio, che “non uccidere” sia sempre giusto. In ogni situazione dobbiamo valutare che cosa dobbiamo fare e giungere, attraverso il mero ragionamento, all’obbligazione di quella singola fattispecie. Secondo Kant, esiste un modo del tutto a priori di stabilire tale obbligazione. Ad esempio, non possiamo non mantenere una promessa, perché se non la mantenessimo andremmo contro il concetto stesso di promessa. Non credo che oggi possiamo più condividere una siffatta fiducia nella ragione. Ciò malgrado l’imperativo kantiano non ha perso il suo valore. Vediamo perché. Possiamo provare a darne un’interpretazione utilitaristica: “opera in modo che se tutti facessero la stessa cosa in quella situazione la felicità degli uomini globalmente aumenterebbe”. E’ chiaro che se tutti mantenessimo le promesse, staremmo tutti meglio. Sappiamo però che l’utilitarismo non tiene conto della distribuzione della felicità. E allora si può ripensare l’imperativo kantiano come ha fatto John Rawls: “Opera in modo che se tutti agissero così in quella situazione e tu fossi una qualsiasi delle persone coinvolte nella tua azione, saresti comunque soddisfatto”. E’ chiaro che non ti converrebbe non mantenere una promessa, ma neanche rendere molto felice Tizio a scapito di Sempronio, come potrebbe accadere in una prospettiva utilitarista. Credo che sia qualcosa del genere che ci comanda la ragione. E lo scettico potrebbe dire: “E se io non seguissi quell’imperativo?”. Beh, se tu non lo seguissi una volta, forse ti andrebbe fatta bene, ma una vita che è sistematicamente contro quel comandamento ha più probabilità di essere infelice che felice. E tanto basta per fondare una morale.

Senza aggiungere altro riporto qui sotto i due commenti: quello di Eugenio ed il mio rispettivamente del 13 e del 25 gennaio 2009.

Sulle questioni legate al fare e non fare io ho trovato in Gandhi un faro unico e insuperato. Gandhi ha una marcia in più rispetto a molti (fra tutti quelli che conosco io almeno) perché lavorava con la morale come se fosse una materia scientifica. Gandhi era essenzialmente uno sperimentatore (e come tanti sperimentatori è morto in laboratorio). A volte ci arriva l’immagine di un Gandhi santo, altre di un Gandhi oscurantista, la verità è che invece Gandhi fu soprattutto uno scienziato e un artista che ha sempre declamato la provvisorietà di ogni risultato da lui raggiunto (“posso cambiare idea in qualsiasi momento” diceva sempre). Ad esempio, molti non sanno che Gandhi poneva deroghe anche sull’omicidio, in alcuni casi in Gandhi uccidere un altro Persona non è solo legittimo, ma necessario
Se posso parlare un po’ in generale, mi viene da dire che la cattiva luce con cui qui (in Italia almeno) viene illuminato Gandhi è che viene sempre usato come esempio di passività per giustificare il nostro DNA sinistro e stalinista per ammazzare a destra e a manca in nome della giustizia sociale.
Commento di Eugenio — gennaio 13, 2009 @ 10:29 am

In qualche parte dei commenti sui nostri blog, il Venditore di dubbi (Piccochiu) cita Pascal: “Bisognerebbe che non si potesse dire di uno: ”E’ un matematico”, né “è una persona eloquente”, ma “è un galantuomo. Questa qualità universale è l’unica che gli piace”. Ora, sempre a proposito di Kant, Vincenzo ci dice che “non possiamo non mantenere una promessa, perché se non la mantenessimo andremmo contro il concetto stesso di promessa”.
Ho avuto occasione di trattare sul mio blog il tema dal titolo “Verità e credibilità” con riferimento alle promesse fatte dai candidati nel corso delle scorse elezioni politiche. Trascrivo, qui di seguito, parte del brano, riservandomi - poi - di gettare un sasso nello stagno in favore di Kant.
“Il programma politico è un progetto organizzativo riguardo ai flussi di risorse per giungere ad avverare la promessa politica. Perché sia vera la promessa occorre che l’agente politico abbia la piena governabilità delle risorse, da una parte; dall’altra che le intenzioni non si discostino dall’effettiva promessa quale è stata dichiarata.
Così sembra, ma è solo un’illusione perché l’efficacia della politica non si misura in base all’assunto:

Credibilità = Intenzione –> Promesse –> Verità

I tre casi mostrati qui sotto, combinati tra di loro, dimostrano che l’efficacia politica, debba essere valutata dai fatti che derivano dalle azioni e non dal rapporto credibilità/verità fondato sulle promesse. Il soggetto politico si propone confezionando il proprio programma in relazione alle risorse che disporrà dopo essere stato eletto e le azioni le compirà in relazione ai fini che vorrà/dovrà raggiungere. Pertanto dà al suo programma una veste convincente sulla base della ideologia già fortemente condivisa tra i suoi elettori e parteciperà ai comizi:

·         Con la promessa limitata alle sole risorse disponibili, con l’intenzione di realizzare quanto promesso esattamente come dichiarato.
·         Con la promessa di sfruttare le risorse nei limiti di quelle disponibili o di quante altre potrà disporre, con l’intenzione di realizzare quanto promesso in modo consciamente diverso da come dichiarato.
·         Con la promessa generica collegata all’ideologia tradizionale collegando risorse indefinite con l’intenzione di agire esclusivamente per recare il minor danno al proprio potere, quando lo eserciterà.

Le tre proposizioni, così come formulate, non danno nessun risultato, in termini di verità e di credibilità; perché nei tre casi il soggetto politico potrà essere indifferentemente credibile, dire il vero ed essere galantuomo; oppure credibile, dire il vero e non essere galantuomo; oppure essere credibile non dire il vero ed essere galantuomo, oppure essere credibile, non dire il vero e non essere galantuomo. L’importante è che appaia credibile, altrimenti nessun partito lo candiderebbe.
Ritengo che l’elemento essenziale che caratterizza il soggetto politico, non è che dia mostra di essere veritiero o galantuomo, ma che sia credibile per il target che vuole rappresentare.
La prima promessa sembra essere quella più vicina a soddisfare la condizione credibilità/verità, ma potrebbe invece essere quella di minore efficacia al punto di scontentare tutti.
La seconda promessa, più realistica, è peraltro più rischiosa, più credibile ma solo in apparenza, perché, nei fatti, l’intenzione sarà diversa dalla promessa.
La terza promessa, infine, sembra la più credibile perché risulterà vera a prova dei fatti, ma non è detto che sarà la più efficace giacché il risultato porterà alla totale perdita di consenso.
Il consenso si ottiene sulle cose fatte e non sulle cose vere o false, o sull’onorabilità dell’attore politico.
A mio parere, con riferimento alla situazione politica nel nostro paese, il candidato dovrebbe orientarsi alla promessa di tipo b.: usare le risorse con l’intenzione di realizzare quanto promesso in modo consciamente e sostanzialmente diverso da come dichiarato. E’ l’unica via coraggiosa da seguire quando, per mettere le cose a posto, si devono scontentare molte persone che godono di poteri forti”.
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Sembrerebbe proprio che essere galantuomini non dipenda dal dire il vero. Si dedurrebbe che un bugiardo potrebbe essere galantuomo. Gli è che nessuna azione del politico è sorretta da principi inconfutabili. Le cose dette dai politici per farsi eleggere riguardano scenari più o meno realistici che si muovono secondo tendenze dinamiche poco prevedibili sui quali il candidato costruisce argomentazioni che soddisfino l’elettorato.
La “galantuomità”? Dipende tutta dalla preparazione, dall’onestà intellettuale e dalle lobby frequentate che in Italia risultano essere tutte fortemente consociate.
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Gandhi è grande. Ma in India risulta ancora esserci caste ed esseri umani impuri: gli intoccabili!
Commento di pibond — gennaio 25, 2009 @ 5:30 pm “

Concludo questo capitolo chiedendo se è possibile agli indiani di abbattere la potente lobby contraria all’integrazione dei paria e agli italiani contrastare chi usa la politica e il sindacato per creare nuove classi di poveri, senza integrare tra loro quelle già esistenti,.

Un esempio? Quella dei divorziati, per lo più maschi, cacciati di casa che si recano alla mensa della Caritas.

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